Categoria: Editoriale

Accordo per ex Ilva sbagliato: adesso si lavori per una gestione con logiche manageriali

La strada tracciata per il ritorno all’acciaio di Stato a Taranto è profondamente sbagliata. L’auspicio è che, quantomeno, la gestione pubblico-privata dell’impianto sia improntata a logiche manageriali e per obiettivi, evitando che si ripeta quanto successo fino alla metà degli anni ’90, quando fiumi di danaro pubblico sono stati perduti nell’Italsider, poi divenuta gallina dalle uova d’oro non appena privatizzata. Le linee guida della partnership tra Invitalia e ArcelorMittal non raccontano tutto il futuro del polo siderurgico tarantino. Ciò che traspare, in modo chiaro, è l’agonia di questo pachiderma che mostra tutti i segni del tempo, sorretto dall’alto quando sta per rassegnarsi al suo declino. Adesso occorrono segnali immediati, chiari e netti sul fronte ambientale, sul rilancio dell’attività industriale e sulla ricucitura del rapporto con la città, difficile se non del tutto inesistente.
È il momento di investire su una siderurgia compatibile con il territorio, intercettando e valorizzando i tanti fondi europei in arrivo. Altrimenti, le nubi, reali e metaforiche, che si addensano sulla città e sull’impianto permarranno ancora a lungo. Le prime sono quelle con cui sono tristemente abituati a convivere i cittadini tarantini, in primis gli abitanti del quartiere Tamburi, prima linea di una guerra che ha fatto troppe vittime senza celebrare alcun vincitore. Le seconde sono legate alla manutenzione degli impianti, carente come denunciato a gran voce dai sindacati, verosimilmente causa di una situazione kafkiana che racconta, nel biennio 2019-2020, un aumento dell’inquinamento a fronte di un calo produttivo. I dati su Taranto e gli studi epidemiologici condotti negli anni hanno sentenziato l’incompatibilità della produzione siderurgica, così come avviene oggi, con la Città dei due mari.
Dunque, il prossimo piano industriale ponga al centro salute e prospettive di vita di migliaia di cittadini, che devono tornare a essere spettatori paganti di un film già visto per decenni: in siderurgia esistono tecnologie moderne come i forni elettrici alimentati con preridotto o ibride con alimentazione anche a idrogeno, che renderebbero l’acciaio molto più sostenibile di quello prodotto oggi a Taranto. Questa visione, tuttavia, stride con l’idea di chi vorrebbe combinare il forno elettrico con quello tradizionale, addirittura riportando in vita l’AFO5, il più grande di tutto il Vecchio Continente.
Nel tentativo di contemperare l’esigenza occupazionale con quella ambientale è, quindi, da prendere in esame anche la possibilità di chiudere l’area a caldo, decisione che potrebbe apparire intransigente ma che, per il siderurgico di Genova, è stata adottata riducendo l’inquinamento della città mantenendo un’attività industriale economicamente sostenibile.
Un altro nodo che fatica a sciogliersi è quella del potenziale “concorrente in casa”: la partecipazione di ArcelorMittal nel capitale della nuova compagine societaria è oggi paritetica con lo Stato ma, fra due anni, sarà di minoranza. Come si potrà gestire la fabbrica gomito a gomito con un attore che, da una parte sarà socio e, dall’altra, concorrente sul mercato europeo e mondiale, con diversi centri di produzione in Europa? Si riuscirà a condividere strategie produttive, commerciali e sugli acquisti, quando nel proprio consiglio di amministrazione siederà un partner ‘avversario’ nel “Risiko” dell’acciaio planetario? Ai posteri l’ardua sentenza. Politiche e posteri a parte, un rinnovato e sostenibile impianto siderurgico deve essere al centro del rilancio di Taranto che, però, non dovrà più dipendere solo dall’acciaio. La Città dei due mari ha potenzialità enormi legate al suo porto – a mio avviso in grado di divenire il più importante hub delle merci nel Mediterraneo -, alla sua storia e alle sue bellezze, che possono renderla meta turistica tra le più apprezzate del Sud.

On. Gianluca Rospi – deputato e presidente di Popolo Protagonista

Bari molto migliorata ma il bello deve ancora venire

Se nel 2019 gli esperti di Lonely Planet hanno inserito Bari come quinta tra le migliori destinazioni europee e prima in Italia, qualche motivo ci sarà. A mio avviso uno su tutti: avranno notato quanto la città di San Nicola sia cambiata. Pur non essendovi nato, ho vissuto la città prima da studente, poi da ricercatore al Politecnico, quindi da ingegnere e adesso da deputato, notando importanti cambiamenti a livello urbanistico che ne hanno segnato la recente storia.

Dalla profonda riqualificazione del borgo antico a quella del waterfront di San Girolamo fino allo sviluppo del quartiere Poggiofranco, la città appare decisamente più bella e attrattiva di un tempo. E il bello deve ancora venire: l’avvio dell’iter volto alla realizzazione del ‘Parco della Giustizia’ nell’area di due caserme dismesse della città fa ben sperare. Cinque anni per realizzare l’intero polo, così come auspicato dal presidente degli avvocati baresi Stefanì nel suo onirico intervento, sono troppo pochi? No, non è così. È il tempo giusto per una realizzazione del genere se la burocrazia in Italia non fosse così pervasiva e sfibrante. Se si è riusciti a costruire il ponte di Genova in due anni, sono convinto che, tecnicamente, non ne occorrano più di cinque per realizzare una cittadella della Giustizia. Basta volerlo. Vedremo se, alla fine, sarà la buona volontà o la burocrazia a vincere.

Ad ogni modo è apprezzabile il lavoro sulla pianificazione territoriale fin qui svolto dal sindaco di Bari, in grado di contemperare le istanze di chi auspica un ampio sviluppo urbanistico della città con quelle favorevoli solo al ‘riuso’ e alla ‘sostituzione’. In mezzo alle due visioni ci sono quelle della rigenerazione urbana, del ‘rammendo’ e del recupero ecosostenibile del patrimonio edilizio, anche attraverso il cambio di destinazione d’uso di edifici preesistenti; nel solco di una mia proposta di legge che spero possa essere presto convertita in legge dello Stato.

Rigenerazione che ben si presterebbe in quel lavoro in atto di valorizzazione dell’intero lungomare cittadino, da nord a sud, con interventi di ricucitura urbana per quelle aree che appaiono ancora slegate dalla città. Sarebbe bello concentrarsi nell’ascolto dei luoghi e delle esigenze dei cittadini per provvedere ai “rammendi” più opportuni, anche in chiave socioeconomica, delle periferie.

Visto che nel dibattito in corso il sogno è ben accetto, intravedo nella costa sud di Bari un parco costiero al servizio della città e un’edilizia residenziale perfettamente integrata nell’ambiente circostante, fatto anche di mobilità sostenibile, servizi di prossimità, spazi pubblici e spiagge. Con lo spostamento del binario, barriera tra i quartieri di Madonnella e Japigia, oltre ostacolo nell’accesso al mare, immagino che la zona retrostante la costa possa essere dedicata a nuove funzioni, anche e soprattutto con interventi di natura privata.

Un paradigma analogo è ipotizzabile anche per il quartiere S. Girolamo-Fesca; il waterfront di recente realizzazione è, sicuramente, un tassello importante del mosaico che prevede la rigenerazione del paesaggio costiero di quel quartiere. Bello sarebbe rivitalizzare le aree demaniali sottoutilizzate, così da renderle luoghi per il tempo libero, lo sport, la balneazione e la socialità.

Come accaduto tante volte nella storia, il mare potrebbe rappresentare un enorme valore aggiunto per la città, magari con la creazione di un nuovo trasporto urbano sull’acqua, in grado di collegare Torre a Mare, il molo di S. Nicola, il terminal crociere, Palese e S. Spirito. Oltre che alleggerire la mobilità urbana, l’idrovia affascinerebbe i già corposi flussi turistici, sicuramente attratti da un nuovo servizio sulle onde dal sapore mitteleuropeo. Stop ai sogni. Mettiamoci al lavoro.

On. Gianluca Rospi
Presidente ‘Popolo Protagonista’ e autore del ‘Decreto Genova’

Si lavori per fare di Taranto il più importante hub delle merci del Mediterraneo

13 ottobre 2020 – Un primo segnale incoraggiante. Gli accordi sottoscritti dal premier Conte inducono all’ottimismo, tuttavia si potrà dare un giudizio positivo all’azione di Governo per il rilancio di Taranto solo se agli annunci seguiranno azioni rapide e concrete per avviare quella diversificazione economica attesa da tempo. La visione da preferire è quella di una città non più dell’acciaio ma della logistica, con tutte le positive conseguenze in termini di salute e qualità della vita per i cittadini. L’ex-Ilva va trasformata in un’acciaieria green in grado di essere profittevole producendo la metà dei volumi attuali, dirottando l’occupazione eccedente su un grande progetto volto a rilanciare il porto di Taranto e il suo indotto. Sì, un grande e ambizioso progetto: Taranto deve conquistare un ruolo strategico al centro dello scacchiere portuale e logistico tra Oriente e Occidente, diventando il più importante hub delle merci nel Mediterraneo, così come lo è Rotterdam nel Mare del Nord, con circa 470 milioni di tonnellate movimentate ogni anno.

Vero è che oggi i porti italiani intercettano una minima percentuale di merci che attraversa ogni anno il Canale di Suez e ammontano solo a 490 milioni le tonnellate che, annualmente arrivano complessivamente nei porti italiani da ogni parte del mondo, con Genova e Gioia Tauro a farla da padrona, seppure solo al 73° e 80° posto tra i maggiori scali al mondo per traffico container. E che, per rilanciare la portualità italiana occorrerà lavorare con maggiore concretezza sulle Autostrade del Mare (dalle quali, al momento, il porto di Taranto è escluso) e sull’efficienza dei servizi logistici, di sdoganamento e di trasporto. Ed è vero, purtroppo, che secondo porto d’Italia nel 2006 per merci movimentate all’anno (con quasi 50 milioni di tonnellate), nel 2019 il porto di Taranto è rotolato, complice la crisi del siderurgico e del terminal container (quest’ultima finalmente risolta), all’undicesimo posto con poco più di 18 milioni (fonte Assoporti.it).

Tuttavia, Taranto ha oggi le potenzialità per diventare la piattaforma logistica del Mediterraneo, centrale nel transito delle merci in arrivo dalle rotte nordafricane e indo-asiatiche: basti pensare che, se facessero scalo a Taranto anziché a Rotterdam, le merci in arrivo da quelle rotte giungerebbero in Europa con ben cinque giorni di anticipo, un risparmio di tempo benefico soprattutto per le derrate alimentari. Peraltro, la concessione di una grande area portuale ai cinesi di Ferretti Group per alcune attività produttive potrebbe essere il viatico per un disegno di più ampio respiro; Taranto ha, infatti, una posizione strategica in vista dello sviluppo dei traffici commerciali che attraversano Suez da e per i paesi dell’estremo Oriente, tra i quali l’India rappresenta quello più promettente per numeri assoluti e tassi di crescita.

Adesso più che mai il Governo deve essere celere nel varare le misure volte a sviluppare l’indotto nel retroporto, facendo in modo che la Zona Economica Speciale jonica possa davvero attrarre imprese e investimenti. Solo utopia? No. Se la politica farà la politica, il territorio tarantino saprà come accompagnarla.

On. Gianluca Rospi
Deputato, presidente di “Popolo Protagonista”

Una visione per Taranto: il più importante hub delle merci del Mediterraneo

08 settembre 2020 – Il più importante hub delle merci nel Mediterraneo. È quello che il porto di Taranto potrebbe divenire in futuro, ponendosi al centro dello scacchiere portuale e logistico tra Oriente e Occidente. È una visione, molto ambiziosa ma altrettanto realistica, che potrebbe iniziare a perseguire il nuovo presidente della Regione Puglia. Il modello da seguire? Senza dubbio quello di Rotterdam, l’hub portuale di riferimento nel Mare del Nord, primo per movimentazione merci in Europa con circa 470 milioni di tonnellate l’anno.

Vero è che oggi i porti italiani intercettano una minima percentuale di merci che attraversa ogni anno il Canale di Suez e ammontano solo a 490 milioni le tonnellate che, annualmente arrivano complessivamente nei porti italiani da ogni parte del mondo, con Genova e Gioia Tauro a farla da padrona, seppure solo al 73° e 80° posto tra i maggiori scali al mondo per traffico container. E che, per rilanciare la portualità italiana occorrerà lavorare con maggiore concretezza sulle Autostrade del Mare (dalle quali, al momento, il porto di Taranto è escluso) e sull’efficienza dei servizi logistici, di sdoganamento e di trasporto. Ed è vero, purtroppo, che secondo porto d’Italia nel 2006 per merci movimentate all’anno (con quasi 50 milioni di tonnellate), nel 2019 il porto di Taranto è rotolato, complice la crisi del siderurgico e del terminal container (quest’ultima finalmente risolta), all’undicesimo posto con poco più di 18 milioni (fonte Assoporti.it).

Tuttavia, la città dei due mari ha le potenzialità per diventare la piattaforma logistica del Mediterraneo, eventualmente in tandem con Gioia Tauro. Insieme, questi due porti, hanno le carte in regola per divenire centrali nel transito delle merci in arrivo dalle rotte nordafricane e indo-asiatiche. Basti pensare che, se facessero scalo nella “Città dei due mari” anziché a Rotterdam, le merci in arrivo da quelle rotte giungerebbero in Europa con ben cinque giorni di anticipo, un risparmio di tempo benefico, soprattutto per le derrate alimentari. Una volta connessi con i propri territori, i porti di Taranto e Gioia Tauro aumenterebbero la propria competitività, rappresentando un volano di attrazione per investitori alla ricerca di luoghi dove produrre o progettare, beneficiando delle agevolazioni fiscali e semplificazioni amministrative previste dalle Zone Economiche Speciali.

Le importanti opere che si stanno realizzando a Taranto per ammodernare le infrastrutture portuali e favorire i collegamenti con strade e ferrovie, renderanno gli standard competitivi del porto di Taranto analoghi, se non superiori, a quelli italiani e dell’area mediterranea. Dunque, se il Governo manterrà l’impegno di destinare risorse del Recovery Fund alla diversificazione produttiva di Taranto, il percorso più ovvio è quello di una città non più dell’acciaio ma della logistica, con tutte le positive conseguenze in termini di salute e qualità della vita. L’ex-Ilva va trasformata in un’acciaieria green in grado di essere profittevole producendo la metà dei volumi attuali, dirottando l’occupazione eccedente su un grande progetto volto a rilanciare il porto di Taranto e il suo indotto.

Solo utopia? No. Se la politica farà la politica, il territorio tarantino saprà come accompagnarla.

Gianluca Rospi
Deputato, presidente di “Popolo Protagonista”

Rospi (PP): ‘UE, spendere guardando al futuro’

Puglia tra le regioni virtuose per la spesa di risorse europee, ma di certo può fare meglio

Torna nel ‘Salotto delle idee’ Gianluca Rospi, Onorevole e presidente Popolo Protagonista, per animare la rubrica di Affaritaliani.it – Puglia: una sorta di virtual-agorà dove stimolare ed incrociare riflessioni, confronto, contributi e stimoli per un futuro dei nostri territori e delle nostre comunità. Un futuro più derminato e segnato dai loro protagonisti, anziché subìto o auspicato da decisioni spesso non condivise o avulse dai contesti di riferimento. Una piattoforma aperta, dove la parola d’ordine sarà costantemente sintetizzata da una convinzione: “La ricchezza è nella diversità” (ag)

Come si suol dire, i numeri non portano rancore: non sono opinabili, perché non appartengono a questo o quel colore politico. Al 30 settembre 2020 l’Italia aveva impegnato 62 miliardi di euro dei 72 stanziati in suo favore dal bilancio 2014-2020 di fondi europei strutturali e di investimento, pari all’86% del totale; e ne aveva spesi solo 31, pari al 43% di quanto avrebbe potuto spendere (fonte: cohesiondata.ec.europa.eu).

Dati decisamente inferiori alla media dell’UE, nella quale i primi della classe nella spesa (Finlandia, Lussemburgo e Austria) hanno raggiunto livelli, rispettivamente, del 77%, 73% e 67%, mentre l’Italia occupa il terz’ultimo posto con alle spalle solo Slovacchia (42%) e Spagna (36%).

Dati preoccupanti sebbene ci sia stato un buon recupero nel 2020, ultimo anno del ciclo di bilancio europeo iniziato nel 2014, che ha scongiurato lo spauracchio del disimpegno automatico di alcune risorse europee. Sarebbe stato un macigno nelle settimane in cui si sta lavorando sulla destinazione delle enormi risorse previste nel nostro piano NextGenerationEU: 223,91 miliardi, il 13% circa del Pil del nostro Paese, in sovvenzioni e prestiti.Ma il Belpaese è terz’ultimo anche nella classifica delle somme impegnate (cioè riferite a progetti già presentati e approvati dall’UE, sopravanzando solo Spagna (84%) e Lussemburgo (82%), tuttavia distante anni luce da paesi come Romania, Grecia, Irlanda e Croazia che hanno impegnato risorse attorno al 115%, quindi già pianificando investimenti in vista delle risorse della programmazione 2021-2027.

Deludenti anche i livelli di spesa dei fondi FESR e FSE allo scorso 31 ottobre per quasi tutte le regioni del Mezzogiorno, quelle che dovrebbero spendere più velocemente per recuperare il gap con le aree più sviluppate. Gli impegni di spesa oscillano tra il 50% e il 70%, mentre i pagamenti tra il 30% e il 40%; a fare eccezione la Puglia con impegni di spesa al 93% e pagamenti superiori al 50% delle risorse programmate. Da valutare se bene o male ma, di certo, le risorse europee la Puglia le sta spendendo.

Le difficoltà nella spesa relativa ai lavori pubblici sono legate a quella “liturgia dell’impotenza” in materia di appalti che neppure questo Governo è riuscito a risolvere. Tra i motivi per cui la burocrazia imbriglia le catene decisionali anche l’assenza dei provvedimenti attuativi sulla riforma del codice appalti, rivisto radicalmente tre volte negli ultimi tre anni e mezzo, e che avrebbero potuto finalmente semplificare il quadro normativo. Mi riferisco al regolamento unico, che già due anni fa avrebbe dovuto sostituire le linee guida Anac, al sistema di qualificazione che avrebbe dovuto ridurre le quarantamila stazioni appaltanti, alla semplificazione e digitalizzazione delle procedure.

Numeri impietosi e che, anche stavolta, non provano sentimenti, ma suonano come monito, in questa irripetibile fase storica che vedrà una pioggia di liquidità ricadere nel nostro Paese con l’obiettivo di rilanciarlo. Tuttavia, le risorse in arrivo non saranno la panacea di tutti i mali, soprattutto se gestiti senza una governance seria, che possa muoversi attraverso maglie della burocrazia meno fitte e confuse.Dei 62 provvedimenti attuativi previsti dal codice del 2016, solo la metà ha visto la luce e molti sono stati poi congelati. In tre anni e mezzo sul codice si sono concentrate 547 modifiche, con 28 nuovi provvedimenti normativi. Una bulimia legislativa che, ne sono certo, non ha pari al mondo.

Per spendere efficacemente la montagna di risorse in arrivo per ammodernare le infrastrutture sarebbe auspicabile affidarsi per alcuni anni a una legislazione di emergenza ispirata, perché no, al modello del “decreto Genova”, concepito per la ricostruzione del ponte, avvenuta in due anni: un decreto – del quale fui relatore – che diede vita a un paradigma potenzialmente replicabile per le altre grandi sfide infrastrutturali dello Stivale. Un modello che, rivisto e corretto in alcuni punti, punterebbe su una burocrazia snella, sulla nomina di commissari ad hoc, sulla rotazione delle imprese e sulla libera concorrenza tra le stesse.

Le prime erogazioni del Recovery Fund sono previste a fine 2021 ma, nel frattempo, gli Stati richiedenti devono dimostrare nelle progettazioni di perseguire alcuni obiettivi fondamentali, per essere ammessi ai finanziamenti: rendere le economie più green, digitalizzate, maggiormente resilienti alle crisi e sostenere il potenziale di crescita nel medio-lungo termine.

L’Italia per raggiungere questi obiettivi potrà contare su oltre 311 miliardi, perché ai già citati 224 del NGEU si sommeranno altre risorse residuali per quasi otto miliardi e gli 80 miliardi della programmazione europea 2021-2026. Considerate le ataviche difficoltà nell’investire cifre ben più limitate, il dubbio sulla capacità di spendere nei prossimi cinque anni somme così imponenti resta; tuttavia, se alla semplificazione della burocrazia si affiancheranno la responsabilità e il rigore richiesti dall’UE, il rilancio del nostro Paese potrà compiersi.

Responsabilità perché l’Europa chiede di spendere i fondi guardando al domani: occorre investire in sanità, istruzione, giustizia, pubblica amministrazione, digitalizzazione, sostenibilità ambientale e climatica, oltre che su riforme utili a modernizzare un Paese rimasto indietro in quasi tutte le grandi sfide.

Quanto al rigore, l’Unione Europea ha raccomandato a Italia, Francia, Spagna, Grecia e Portogallo di affrontare il problema del debito pubblico, annoso tallone d’Achille per l’Italia. In questa non prestigiosa graduatoria, il debito pubblico italiano (nel 2020 attorno al 160% del PIL) resta il secondo peggiore tra quelli delle economie avanzate, sovrastato unicamente da quello del Giappone, pari al 260% (che, tuttavia, essendo detenuto quasi integralmente dai giapponesi, è al riparo da rischi speculativi). Allargando la classifica del debito pubblico a tutte le economie mondiali, solo Sudan, Grecia, Eritrea e Libano fanno peggio dell’Italia; una condizione, quella del Belpaese, da orlo del precipizio che induce qualche politico populista ad agitare lo spettro della Troika, che tante ombre e poche luci ha raccolto durante l’interregno ad Atene.

Più serenamente va detto che l’occasione del NGEU rappresenta un’irripetibile occasione per rilanciare l’Italia a condizione che il Paese sia liberato da quei lacci e lacciuoli che lo imbrigliano. L’incapacità dell’Italia di sfruttarlo per aumentare il potenziale di crescita a lungo termine dell’economia, eserciterebbe probabilmente un’ulteriore pressione al ribasso sul profilo creditizio nazionale, che si tradurrebbe in un mancato sostegno e stimolo della crescita, impedendo di ridurre nel tempo il rapporto debito/PIL. Un circolo vizioso dall’epilogo infausto, considerando che qualora saltasse il banco in Italia, l’intera Unione Europea sarebbe a rischio sopravvivenza.

Siamo, dunque, di fronte a una vera e propria prova di credibilità. Si dice che un politico guarda alle prossime elezioni, mentre uno statista alle prossime generazioni. La nostra classe dirigente adesso deve decidere da che parte stare, sapendo di avere gli occhi addosso delle generazioni che studieranno il Coronavirus sui libri di storia.

Fonte: Affari Italiani

 

Ambiente e clima: Recovery Fund e New Green Deal, da qui passa il futuro

09/01/2021
Il 2020 è stato l’anno più caldo da quando esistono i monitoraggi ambientali: nell’anno appena trascorso, infatti, è stato nuovamente raggiunto il picco già toccato nel 2016, registrando una temperatura più alta di 1.25 gradi centigradi rispetto al periodo pre-industriale. Sono questi i risultati che arrivano dall’indagine di Copernicus, il servizio di monitoraggio satellitare della Terra dell’Unione Europea.

Questo dato si inserisce nel trend negativo che ha caratterizzato il decennio 2011-2020. Sembra inoltre che questo sarà confermato dai risultati dell’indagine dell’Organizzazione Metereologica Mondiale (OMM), la quale ha già anticipato a fine dicembre come il 2020 sarà classificato tra i tre anni più caldi mai registrati. Il calore degli oceani ha raggiunto livelli record e oltre l’80% dell’oceano globale ha subito un’ondata di caldo marino durante il 2020, con ripercussioni diffuse per gli ecosistemi acquatici che già soffrono di acque più acide a causa dell’assorbimento di anidride carbonica (CO2).

L’anno appena trascorso ha insegnato a tutti noi qualcosa di fondamentale: non vi può essere salute in un Pianeta malato. Abbiamo imparato a conoscere, infatti, il Covid-19 come una malattia respiratoria causata dal virus SARS-CoV-2, appartenente alla famiglia dei coronavirus. Una delle caratteristiche fondamentali di questi virus è la loro appartenenza alla specie animale e la loro capacità di zoonosi, ovvero di realizzare il salto di specie dall’animale all’uomo. I sempre più frequenti disboscamenti, la progressiva erosione degli spazi naturali a favore di aree industriali e urbane, l’innalzamento della temperatura terrestre: tutti questi elementi si sono rivelati determinati nel favorire l’insorgere del Covid-19, la cui diffusione è stata ampliata dalle profonde interconnessioni che caratterizzano l’attuale società globale.

Oggi più che mai per salvarci, abbiamo solo una possibilità: ripristinare un’equilibrata e integrale relazione tra uomo ed ambiente, riducendo i livelli di inquinamento, tutelando gli ecosistemi naturali e superando definitivamente la dipendenza da combustibili fossili al fine di abbracciare un new green deal.
Per questo motivo, il Next Generation EU, il nuovo piano per la ripresa è resilienza Europeo, ha individuato tra gli obiettivi principali per il superamento della crisi la costruzione di un «Europa più ecologica, digitale e resiliente». Ne è conferma il fatto che ben il 30% delle risorse del Recovery Fund dovranno essere impegnate nella lotta ai cambiamenti climatici. Questa è la percentuale più alta di sempre del nostro bilancio comunitario. La transizione verso un’economia circolare e più sostenibile per il raggiungimento della neutralità climatica nel 2050 non sarà tuttavia facile senza un impegno concreto di tutti i Paesi della comunità europea. L’unica certezza è quella che questo ambizioso obiettivo permetterà di avere benefici non solo di carattere ambientale, ma anche economici, e soprattutto consentirà uno sviluppo più equo e sostenibile delle nostre comunità, le quali saranno riportate al centro delle politiche e delle azioni.

Lo sforzo mentale che dovremmo fare è quello di immaginare l’Europa che vorremmo vedere fra trent’anni, l’Europa che dovremo consegnare ai nostri figli, percorrendo la via della programmazione di lungo termine: una sfida senza dubbio difficile, ma necessaria per la nostra Casa Comune. Per fare ciò abbiamo bisogno di invertire rotta, guardare a nuove soluzioni, costruire il presente con uno sguardo verso il futuro.
Il NexGeneratoEu costituisce, in questo senso, la migliore occasione che abbiamo per iniziare una transizione green che da troppo tempo viene rimandata: non dobbiamo però sprecarla, per evitare di precludere il futuro alle nuove generazioni. Al contrario, dovremmo utilizzare le risorse europee per progettare un Paese più semplice, più connesso, più innovativo e più green.

La lotta ai cambiamenti climatici è la sfida del nostro millennio, e deve diventare una priorità in qualsiasi agenda politica. Quale mondo vogliamo lasciare ai nostri figli? La risposta a questa domanda può essere ricavata guardando il risultato di un’indagine, diffusa dall’istituto Swg che rivela che 64% dei ragazzi appartenente alla generazione Z – i nati tra 1996 e 2010 – indica il clima come la realtà che maggiormente li preoccupa.
Abbiamo il dovere di tutelare le generazioni future, e lasciare loro un mondo più in salute. Questa responsabilità appartiene a tutti noi, e in modo particolare ai policy makers nazionali e internazionali, che hanno il dovere morale e politico di correggere le distorsioni che l’uomo stesso ha creato con le sue attività nel corso degli ultimi due secoli. Il cambiamento inizia ora: se avremo appreso dai nostri errori, potremo immaginare un futuro radioso e più integrale, per il Pianeta e per le meravigliose specie naturali e umane che lo abitano.

Gianluca Rospi

Gestione della riapertura scolastica: tra proclami e realtà

8 dicembre 2020 – Con l’ultimo DPCM emanato dal Presidente Conte, in gennaio il 75% della popolazione studentesca ritornerà alla didattica in presenza, in particolare quella delle scuole secondarie di secondo grado.
Fin da marzo ho sempre sostenuto – e continuo a sostenere anche oggi – la necessità di mantenere le scuole aperte, perché un Paese che non cura l’istruzione dei suoi giovani difatti rinuncia alla volontà di perseguire un futuro più roseo per i suoi cittadini. Senza istruzione non può esservi benessere, crescita e sviluppo: venendo meno questi, difficilmente ci potrà essere salute.
Della stessa idea sembra essere anche il Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina, la quale ha promesso, come certa, l’apertura delle scuole il 7 gennaio. Se ideologicamente possiamo condividere lo stesso pensiero, non ci si può però non accorgere che i proclami del Ministro rischiano di assumere, come accaduto fino ad oggi, il mero carattere di slogan visto che le proposte soluzioni cambiano di giorno in giorno e, soprattutto, non sono seguite dai fatti.
D’altronde, inutile nascondere i nodi ancora da risolvere, come la questione della mobilità, la quale peraltro ha un’incidenza relativa non solo al settore scolastico ma anche a tutti i movimenti di individui e lavoratori. Questione questa che è stata individuata come una delle cause principali della propagazione della seconda ondata del virus.
Nessuna azione concreta è stata messa in atto per garantire una riapertura definitiva e in sicurezza delle scuole. I problemi sono numerosi e tra loro interconnessi.

Il Ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, Paola De Micheli continua, infatti, a rivendicare orgogliosamente i risultati del lavoro, che solo Lei vede; nel frattempo l’affollamento dei trasporti pubblici è una realtà così tristemente evidente da non poter essere negata. A un mese esatto dalla supposta riapertura, il piano trasporti risulta ancora assente. Ecco perché non potranno così bastare le misure di scaglionamento degli ingressi scolastici, soprattutto se non concordate con il settore del trasporto pubblico locale.

In tempo di pandemia, il Ministero ha scoperto che esiste il problema del sovraffollamento delle classi. Una realtà, però, già nota da tempo a tutti gli operatori scolastici e a chiunque avesse davvero a cuore il mondo della scuola. Come possono bambini e ragazzi passare più di cinque ore al giorno in aule troppo piccole e spesso prive di sistemi di sistemi adeguati di ricircolo d’aria? Tanto che il Ministero ha consigliato in questi mesi l’apertura delle finestre, cosa di difficile applicazione nei prossimi mesi invernali.
Si sarebbe dovuto sfruttare l’estate per adeguare le aule ma, nonostante i diversi suggerimenti dati, è stato fatto poco o nulla. Si potrebbero avviare ora i lavori, nel tempo che manca da qui a gennaio, ma ancora nessuno si è mosso in tal senso. Dotare le aule di impianti di areazione con filtri adeguati, soprattutto in questo momento drammatico causato dal Covid-19, sarebbe stata la priorità in qualsiasi ragionamento di buon senso: si è invece preferito investire in banchi a rotelle.
Leggo inoltre che c’è la volontà di predisporre un sistema di tamponi rapidi nelle scuole. Cosa si sta facendo per far si che il 7 gennaio sia già tutto pronto per questo, considerato, peraltro, che ci saranno in mezzo le feste natalizie?
Ho il presentimento che dovremmo ancora armarci di scorte di mascherine e del giusto distanziamento, misure antiche ma sempre efficaci contro le pandemie.

La scuola deve ripartire e definitivamente.

Il mio invito è che si ascoltino di più le istanze di dirigenti scolastici, insegnanti e ragazzi. Le soluzioni a problemi complessi, quali quelli che stiamo vivendo, richiedono la discesa in campo delle migliori forze. Se la scuola dovrà riaprire, dovrà farlo al riparo dal rischio di richiudere. Ne va del futuro non solo di bambini e ragazzi, ma dell’intero Paese.

Rigenerazione urbana sostenibile per il futuro delle città

da: Affaritaliani.it

Con questo primo intervento di Gianluca Rospi prende il via questa rubrica di Affaritaliani.it – Puglia, che vuol essere una sorta di virtual-agorà dove stimolare ed incrociare riflessioni, confronto, contributi e stimoli per un futuro dei nostri territori e delle nostre comunità. Un futuro più derminato e segnato dai loro protagonisti, anziché subìto o auspicato da decisioni spesso non condivise o avulse dai contesti di riferimento. Una piattoforma aperta, dove la parola d’ordine sarà costantemente sintetizzata da una convinzione: “La ricchezza è nella diversità” (ag) 

Gianluca Rospi

di Gianluca Rospi *

La pandemia sta condizionando il nostro presente e, purtroppo, anche il nostro immediato futuro, sconvolgendo i nostri rapporti sociali, paralizzando l’economia e mettendo a dura prova i comparti dell’architettura e dell’edilizia, già da anni in sofferenza.

Superata l’emergenza dovremmo porci il problema su come evitare disastri futuri, che siano sanitari, ambientali o socioeconomici. Una cosa è certa, bisogna ripartire dalle nostre comunità, che dovranno essere totalmente riprogettate guardando alla centralità dell’uomo e del cittadino, più sostenibili e green, tanto da rendere i quartieri e le città veri e propri luoghi del benessere.

La rigenerazione delle città può (e deve) rappresentare un’opportunità per il ripensamento delle politiche urbane ed edilizie, in maniera da rispondere alle esigenze dei cittadini e sostenere il settore delle costruzioni che rappresenta l’8% del Pil italiano con una filiera così articolata da coinvolgere, secondo stime dell’Ance, il 90% dei settori economici.
Settore fondamentale per la ripresa economica del Paese che, però, necessita di risposte certe e il più possibile immediate anche a livello legislativo per snellire al massimo le procedure burocratiche.

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Ciò che occorre è una vera e propria rivoluzione nell’organizzazione delle nostre città che dovrà vedere profondamente rinnovato il modo di concepirle, tutelando e valorizzando le singole bellezze culturali, così tanto diffuse nel nostro Paese. Per decenni le abbiamo considerate come agglomerati di tante singole porzioni di territorio (i quartieri), ma questo paradigma, oggi, va assolutamente rovesciato. La città è un corpo unico e vivo, nella quale le nuove infrastrutture digitali e i nuovi bisogni delle comunità devono stimolare architetti e ingegneri a ripensarle in maniera omogenea.

In Italia si è sempre parlato di rigenerazione urbana ma, fatta eccezione per qualche iniziativa locale, talvolta anche di lodevole interesse, non esiste una norma di indirizzo nazionale.

Orsara di PugliaLa nostra visione urbanistica è racchiusa nelle due proposte di legge che ho concepito nel 2019 (n. 1872 e 2046): la prima per la rigenerazione urbana e il recupero ecosostenibile del patrimonio edilizio, la seconda riguardante perequazione, compensazione e recupero urbanistico per la promozione di programmi di rigenerazione urbana sostenibile.

L’intento è quello di addivenire a una legge ponte, che introduca un percorso di riforma organica del settore urbanistico, passando dalla logica dell’espansione a quella della rigenerazione e recupero urbano, attraverso anche l’indicazione di nuovi standard urbanistici.

Con queste proposte di legge si indicano i princìpi di indirizzo alle Regioni da inserire nei piani di rigenerazione urbana sostenibile, incluse alcune previsioni sugli interventi di demolizione e ricostruzione e di delocalizzazione, utilizzando il principio delle premialità, entro determinati limiti, conseguibili nel caso in cui si riduca la copertura di suolo almeno del 25% a favore di quello permeabile. E ancora, si regolamentano perequazione, compensazione e recupero urbano, disciplinando nuovi standard urbanistici per gli interventi di rigenerazione urbana sostenibile.

Proposte che inciderebbero profondamente sul tessuto urbano, senza snaturare il volto delle città, incentivando la riqualificazione di interi agglomerati edilizi, arginando fenomeni di degrado sociale e riducendo il rischio di nuove espansioni edilizie incontrollate.

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Questi nostri intenti vanno anche nella direzione dei desiderata di Ance, che individua cinque obiettivi per la rinascita delle nostre città attraverso una rigenerazione urbana sostenibile: una legge specifica che ne riconosca il pubblico interesse; un rinnovo degli strumenti per pianificare la trasformazione delle città; la ricerca di un’urbanizzazione sostenibile; la tutela come opportunità di sviluppo e non come vincolo; innovazione, qualità e circolarità per un’edilizia sostenibile.

Il fine ultimo da perseguirsi è quello di dare impulso a interventi mirati per il recupero del patrimonio insediativo esistente, promuovendo operazioni di riqualificazione urbana che conducano al riordino dei tessuti urbani degradati, al risparmio del consumo di suolo, al miglioramento delle prestazioni energetiche e sismiche degli edifici. E, soprattutto, allo sviluppo economico e sociale dei territori riqualificati.

Se si pensa all’incidenza degli edifici costruiti prima delle norme del 1991 sul risparmio energetico (il 65%) o a quella degli edifici realizzati prima delle norme antisismiche del 1974 (il 60%, in un Paese che stima i danni causati dal terremoto negli ultimi 10 anni in quasi 40 miliardi di euro) appare chiaro quanto sia necessario e indifferibile un nuovo approccio per rinnovare il patrimonio edilizio nazionale.

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Tuttavia, la rigenerazione urbana non sta ancora trovando spazio nella legislazione nazionale; per di più c’è ancora molta confusione su quelle che sono le prerogative degli interventi, associando spesso erroneamente le misure di ecobonus e sismabonus alla rigenerazione urbana.

L’obiettivo della maggior parte della legislazione vigente in Italia (peraltro diversa da regione a regione se si tratta di gestione del territorio) non mette al centro la progettualità e concepisce la rigenerazione urbana in quanto mera riqualificazione di parti di territorio urbanizzato, tramite il recupero fisico-spaziale e urbanistico-edilizio, sovente incentivati da premialità volumetriche o economiche.

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Le sfide poste dalla rigenerazione urbana sono più variegate e orientate alla socialità: penso a città realmente a misura d’uomo, con un benessere diffuso, rispondenti alle rinnovate esigenze ambientali, digitali e di socialità, anche nelle attività lavorative, sempre più influenzate dalle logiche dello smart working.

Non può esistere rigenerazione senza adeguamento delle infrastrutture pubbliche e, successivamente, senza interventi in grado di migliorare le condizioni di vita, anche lavorativa, dei cittadini. Inevitabilmente, non esiste rigenerazione urbana senza ingenti investimenti e sostegno del pubblico.

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Non può esistere rigenerazione urbana se non ci riappropriamo del concetto di bene comune, dove spazi e servizi pubblici sono considerati di tutti e non di nessuno, dove le città sono a servizio di tutti i cittadini senza distinzione di classe e cultura.

Sono, dunque, insufficienti gli incentivi per gli edifici dei privati, come il sismabonus, l’ecobonus o il bonus facciate, tutti interventi ammirevoli, ma che non mutano il volto della città nel loro insieme, bensì soltanto nel particolare.

La città diventi un abito su misura dell’uomo, non un patchwork multicolore delle sue esigenze.

* presidente di Popolo Protagonista

Il futuro dei giovani al centro. La proposta di Rospi sul lavoro

da: formiche.net

Il deputato Gianluca Rospi, presidente di Popolo Protagonista, sottolinea la necessità di investire sui giovani. Per questo propone un disegno di legge che incentivi le imprese ad assumere con uno sgravio fiscale pari al 100% dei contributi previdenziali per i primi quattro anni e il 50% per i restanti due.

Incertezza del proprio futuro, precarietà nel lavoro, preoccupazione nel poter realizzare una famiglia. Queste alcune delle perplessità che tormentano le nuove generazioni. La scuola e l’università non occupano più le pagine principali dell’agenda di governo, assistiamo continuamente ad un imbarazzante imbarbarimento socio-culturale delle nostre comunità e un costante disinteresse dei cittadini verso il bene comune. Se continuano così il rischio è creare un danno irreversibile al nostro Paese che si ripercuoterà sul futuro prossimo dei nostri ragazzi. Un’Italia sempre più vecchia e poco attrattiva, un Paese ricco che si svuota e che lascia al caso troppe cose.

I giovani, le nuove generazioni, sono senza dubbio la categoria più fortemente colpita dalla crisi economica post pandemia. Se non per quanto riguarda la salute, sicuramente dal punto di vista occupazionale e di opportunità. Bisognerebbe chiedersi perché e la risposta la potremmo trovare nelle cattive politiche economiche rivolte ai giovani fatte negli ultimi anni e negli ultimi decenni. Ed è proprio qui che troviamo la risposta al perché sempre più giovani si trasferiscono all’estero, nei Paesi vicini e non, consapevoli che altrove troveranno una reale soddisfazione economica e carrieristica. Un fenomeno a senso unico, ovviamente, perché sono troppo pochi coloro che dall’estero decidono di trasferirsi in Italia. Ciò avviene perché in Paesi come ad esempio la Germania o la Francia, le politiche dedicate ai giovani sono di gran lunga superiori alle nostre.

Ci siamo mai chiesti cosa possiamo fare realmente per aiutare i nostri ragazzi a rimanere qui? Le polemiche sterili o i soliti slogan politici abbiamo visto non servire a nulla, ora occorre analizzare il problema e risolverlo. Non è una questione di destra o sinistra, qui serve unire le forze e ricostruire insieme il futuro dell’intero Paese. Sono convinto sia proprio adesso, in un momento in cui l’Italia ha bisogno di un rilancio, che dobbiamo investire sulle nuove generazioni. Sono mesi che lo dico e sono lieto che anche un massimo esponente dell’economia mondiale come l’ex presidente della Bce, Mario Draghi, al forum economico di Rimini, abbia incentrato il suo discorso proprio sui giovani e sulla loro occupazione. Non possiamo far finta di niente, dobbiamo capire che il debito pubblico italiano e soprattutto quello accumulato in questi mesi di pandemia ricadrà sulle spalle delle nuove generazioni e solo creando posti di lavoro e solidità professionale oggi, daremo loro la possibilità domani di farcela. È vero anche che però occorre mettere le imprese nella condizione di poter assumere, in un momento economicamente difficoltoso come quello che stiamo vivendo e che ancora per un po’ vivremo.

È partendo proprio da questo che ho deciso di fare una proposta di legge, depositata ad inizio agosto, per la promozione dell’occupazione giovanile, prendendo spunto dalla legge 285 del 1977 che ha consentito negli anni 1978-1979 l’inserimento nel mondo del lavoro di numerosi giovani. La proposta prevede che i datori di lavoro che assumono giovani qualificati, diplomati o laureati, di età compresa tra i 18 e i 34 anni, possano usufruire di uno sgravio fiscale pari al 100% dei contributi previdenziali per i primi quattro anni e il 50% per i restanti due. È incoraggiando le aziende che riusciamo a concretizzare le assunzioni dei giovani che usciti dal liceo o dalle università possono iniziare la loro carriera, partendo anche da un apprendistato professionalizzante retribuito che avrà il compito di formare il giovane e inserirlo nel mondo del lavoro sfruttando le singole qualità professionali.

Auspico che la mia proposta di legge venga presto calendarizzata in Parlamento e che venga discussa e approvata quanto prima. Non abbiamo tempo da perdere, il futuro delle nuove generazioni e dell’Italia intera è nelle nostre mani.

Il modello Genova e la piaga dell’iper-burocrazia. L’opinione di Rospi (Popolo Protagonista)

Da: Formiche.net

La ricostruzione del ponte di Genova ha messo le basi per un modello che può e deve essere replicato, con alcuni aggiustamenti, per le altre grandi opere del Paese, e vincere una volta per tutte l’iperburocrazia italiana. L’intervento dell’On. Gianluca Rospi, presidente di Popolo Protagonista

La realizzazione in tempi record del Ponte di Genova non è stato un miracolo, ma la dimostrazione che se si procede con tempestività, ordine e meno burocrazia le cose funzionano. Peccato però che come sempre anche questo tema sia diventato uno strumento politico, sterile, che nulla ha che vedere con il bene comune dei cittadini.

Da che prima c’era una certa ritrosia nell’ammettere che il Decreto Genova, di cui sono anche stato relatore, era un modello pienamente operativo e replicabile, ora, seppur in ritardo, anche il governo ha capito che può essere utile per lo sblocco di molte delle opere ancora ferme.

Utile sì, ma non pienamente funzionante se non modificato in qualche punto. Perché? Perché il Ponte di Genova è stato un caso di eccezionale emergenza, e il Decreto riguardava un tipo d’infrastruttura già preesistente, crollata e da ricostruire, che bene si adattava a un modello come quello poi utilizzato.

Ma per chi ha letto davvero il Decreto, e non per chi non sa di cosa si parla, è impensabile adottare le stesse modalità in tutte le altre opere bloccate nel Paese.

Sbloccare i cantieri è sicuramente prioritario in Italia, perché l’edilizia è volano dell’economia e se per farlo si vuole utilizzare il Modello Genova occorrerebbe attuare alcune piccole modifiche che siano in grado di snellire la burocrazia, da sempre nostro tallone d’Achille, responsabilizzare meglio le stazioni appaltanti e soprattutto dare tempi certi per la fine dei lavori.

Considerata la situazione di grave emergenza in cui ci troviamo oggi, per tutte le opere sotto il milione e che ricadono nei territori comunali, sarebbe utile nominare i sindaci come commissari manager delle opere, proprio perché conoscono il territorio e per questo possono meglio tutelarlo.

Per tutte le altre opere al di sopra del milione di euro, invece, basterebbe dare la possibilità alle stazioni appaltanti di procedere utilizzando l’art. 63 del codice degli appalti che prevede una procedura negoziata senza pubblicazione del bando, con un numero minimo di imprese non superiore a dieci, con l’accuratezza di garantire la rotazione delle imprese, favorendo le imprese più solide.

Per le opere superiori al milione e di valenza extra comunale invece è bene che i commissari manager, nominati dal Governo, operino di concerto con i Provveditorati Interregionali alle opere pubbliche, costituendo anche strutture autonome di missione.

Come sempre ciò che manca è il tempismo, ma anche se tardi, qualcosa si muove. Sembra infatti che già nella bozza del Dl Semplificazione, incaricato anche di sburocratizzare l’intero sistema delle piccole e grandi opere in attesa di essere sbloccate, si sta andando nella direzione dell’uso dell’’art. 63 e la nomina di commissari straordinari, anche se rimangono ancora da chiarire sia le procedure d’appalto sia gli effettivi poteri commissariali.

Ma come sempre non possono mancare le solite polemiche su chi difende il Codice degli Appalti e su chi vuole il Modello Genova, che ci fanno perdere il tempo prezioso che, invece, dovremmo investire per mettere in sicurezza le strade e i ponti che versano in situazioni drammatiche, con il rischio di avere altre tragedie come Genova.

Polemiche che continuano anche in questi giorni sulla questione concessioni del Ponte Morandi. Benetton si, Benetton no, è stato il mantra degli ultimi 2 anni, dopo la tragedia che ha visto la morte di 43 persone, ancora non siamo riusciti a dare il giusto messaggio alle famiglie delle vittime.

Anche in questo caso si è preferito andare avanti attraverso slogan politici invece di mettersi intorno a un tavolo e discutere soluzioni valide per sostituire il concessionario.

Da subito ho consigliato al governo che, per fare i lavori bisognava subito acquisire i tronchi autostradali connessi al Ponte per evitare interferenze con il concessionario e contestualmente, se la volontà era quella di togliere la concessione ad Aspi avviare una gara europea, in piena trasparenza, per l’individuazione di un nuovo concessionario a condizioni più vantaggiose per lo Stato Italia.

Questo sarebbe stato l’unico modo per togliere la concessione ad Aspi e contestualmente garantire la sicurezza dei cittadini. Tutto il tempo che si perde ancora, non solo crea disagi per le strade della Liguria, ma rende inutile l’efficienza e la velocità con le quali il Ponte è stato ricostruito.

Occorre tenere bene a mente che la politica nasce per dare benefici ai cittadini, in questo momento invece stiamo solo andando contro i loro interessi. Serve un cambio di marcia, una nuova visione delle istituzioni. Manca da troppo tempo quell’etica sociale e culturale che è riuscita a fare da collante tra politica e cittadini per tantissimi anni e che da oltre 30 anni non esiste più.

Gianluca Rospi