Categoria: Editoriale

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: FACCIAMO UN PO’ DI CHIAREZZA

Il disegno di legge prevede ben 23 materie potenzialmente trasferibili alle Regioni ai sensi dell’art.116 Cost. Ai Presidenti di Regione potranno andare competenze in materia di giudici di pace, istruzione, ambiente, beni culturali, rapporti con l’Ue, commercio estero, sicurezza sul lavoro, professioni, ricerca scientifica, salute, ordinamento sportivo, protezione civile, porti e aeroporti, grandi reti di trasporto, energia, previdenza complementare, coordinamento della finanza pubblica, casse di risparmio, enti di credito fondiario e agrario.

Centrale si rivela il tema delle risorse finanziarie che devono essere accompagnate dal processo di rafforzamento dell’autonomia regionale nel rispetto della necessaria correlazione tra funzioni regionali rafforzate e risorse disponibili. Tuttavia, è proprio in quest’assunto che il diavolo si nasconde nei dettagli.

Da tempo Fontana, Zaia e Bonaccini, i tre governatori della secessione camuffata puntano a restare in Italia ma badando solo alla propria gente. Cioè non solo occuparsi di quasi tutte le funzioni svolte ora dallo Stato, nella convinzione di essere più bravi, dalla scuola, ai trasporti, alla sanità. Ma, detto e non detto, anzi più detto che non detto, trattenere i nove decimi delle tasse pagate dai residenti in Regione. Principio in base al quale io più ricco devo essere trattato meglio di te povero. Ricchezza come virtù, povertà come peccato. In un Paese in cui per la parte più ricca lo Stato già spende di più che per la parte più povera, dà più asili nido (per dirne una) a chi potrebbe pagarseli da sé e meno a chi non può pagarseli. Chi sarà in grado di spendere di meno, cioè di essere più efficiente, avrà anche un gruzzoletto da utilizzare a piacer suo. Può sembrare anche un bel progetto, peccato che il calcolo per distribuire le risorse – vera chiave del sistema dell’«autonomia differenziata» – rischia di essere la media pro capite nazionale, che come tutte le medie non centrerebbe il problema. Perché Regioni come la Basilicata dove la sanità costa di più per motivi storici e territoriali, dovrebbero accontentarsi della media; mentre Regioni come la Lombardia, dove la maggiore efficienza rispetto al resto d’Italia abbassa il costo medio, incasserebbero di più. Se tutto fosse così, questo sarebbe sempre più il Paese in cui ci vuole fortuna anche a decidere dove nascere. Perché se nasci nella parte sbagliata, poi non venire a lamentarti.

In estrema sintesi, il criterio del trasferimento le risorse può essere di tre modi. Un criterio sono i “costi storici” e, se attuato, non cambierebbe nulla rispetto a oggi. Un altro criterio è la media pro capite, e – come detto – sarebbe fortemente discriminatorio per il Sud; infine ci sono i “Livelli essenziali delle prestazioni” Lep, volti a “prezzare” ogni singolo servizio, soluzione migliore, ma sui quali pesano grandi interrogativi sulla capacità di una realistica valutazione dei singoli servizi.

Il sistema dei Lep garantisce tutti al contrario il sistema della media pro capite, previsto nella Legge Calderoli, garantisce le Regioni con i servizi più sviluppati e quindi più finanziati, in altri termini le Regioni più ricche. Insomma chi aveva meno, e ha potuto spendere di meno, avrà meno. Chi aveva di più sempre di più.

Sarà bene tenere sotto controllo il cammino di questo progetto, che il Parlamento dovrà approvare a maggioranza assoluta, cioè con legge rinforzata. Perché è vero che, in termini astratti, avvicinare la spesa al territorio può essere considerato per certi versi positivo e stimolante, ma è vero anche che funzioni e servizi pubblici come quelli dell’Istruzione, della sanità o delle infrastrutture, una volta regionalizzati, metterebbero a rischio la tenuta dei programmi e degli indirizzi strategici con un prevedibile effetto caos rischiando di allargare il divario tra un Nord con sempre più risorse e un Sud sempre più povero, penalizzando soprattutto quelle Regioni, come la Basilicata e la Calabria a bassa densità abitativa e con un territorio ad elevata fragilità idrogeologica e poco industrializzato.

Al contrario oltre a definire i Lep essenziali occorre costruire un sistema federativo in cui le Regioni, come quelle del Sud, con produzioni maggiori di energia e materie prime rispetto al loro fabbisogno, abbiano vantaggi economici da poter ribaltare sui propri cittadini. Come, ad esempio, il poter gestire in maniera autonoma l’energia, visto che la nostra terra produce molta più energia da fonti rinnovabili del proprio fabbisogno o la gestione in completa autonomia delle risorse minerarie di gas e petrolio, risorse che mette a servizio di tutto il Paese traendo ben pochi benefici. Perché non prevedere, allora, introiti aggiuntivi derivanti dal surplus di produzione energetica e delle risorse naturali.

È bene ricordare che “Un’evoluzione del Mezzogiorno sarebbe una benedizione per l’Italia e permetterebbe di affrontare meglio il futuro, tutti insieme”; parole non mie ma del giornalista Piero Angela e che dovrebbero essere il fondamento di qualsiasi legge sull’autonomia Regionale.

SE NON SI SBLOCCA IL SUPERBONUS LA CRISI ECONOMICA RISCHIA DI AGGRAVARSI

La “crescita straordinaria” rivendicata dal premier Mario Draghi durante l’ultima conferenza stampa? Dipende in gran parte dal Superbonus. Questo è quanto emerso dall’ultimo report dell’Istat.

La maxi detrazione Superbonus del 110% delle spese sostenute per interventi di efficientamento energetico e antisismico è in vigore, come è noto, dal luglio 2020. Fino a quel momento il valore aggiunto delle costruzioni viaggiava introno ai 17 miliardi al trimestre. Un anno dopo superava i 19 e oggi si attesta a 21,9 miliardi. 

Un progresso che nessun altro comparto ha avvicinato. Guardando alle variazioni trimestrali, il valore aggiunto del comparto è aumentato nel primo trimestre del 18,7% anno su anno e del 5,8% sul quarto trimestre 2021. Di gran lunga la crescita maggiore sia sul piano congiunturale, davanti al +4% della branca “Attività professionali, ricerca e servizi di supporto“, sia tendenziale (segue il +17,5% di “Commercio, trasporto, alloggio e ristorazione“). 

L’industria in senso stretto ha dato al contrario un contributo congiunturale negativo (-0,9%) vero problema da risolvere nell’immediato.

Ma l’aspetto più interessante è che a trainare il PIL italiano sono con tutta evidenza il settore delle costruzioni, il cui valore aggiunto, cioè la differenza tra il valore dei beni finali e quello degli input produttivi, sta continuando a salire a tassi sostenuti dopo che nel 2021 ha superato i 77,1 miliardi, ben sopra i livelli pre Covid (68,1 miliardi nel 2019).

Purtroppo l’andamento del trimestre in corso e quello dell’ultima parte dell’anno, destinato già a risentire dei forti rincari energetici e delle materie prime, sarà inevitabilmente influenzato, in negativo, dal congelamento legato al blocco del mercato dei crediti, non risolto dal via libera alla cessione da parte delle banche ai propri clienti con partita Iva. 

Resta infatti intatto il nodo della responsabilità solidale in capo agli istituti stessi nel caso in cui non abbiano effettuato tutti i controlli preventivi per evitare frodi. 

Il risultato è che molti hanno sospeso le operazioni lasciando imprese e famiglie con il cerino in mano.

Il prossimo governo deve immediatamente risolvere la situazione liberalizzando la cessione del credito, anche a fronte di una lieve riduzione dell’aliquota di cessione che potrebbe stabilizzarsi tra il 70% per i redditi medio alti e 90% per i redditi più bassi.

Se non si pone subito rimedio la crisi economica rischia di aggravarsi entrando in una spirale da cui sarà difficile uscirne senza una Manovra di Bilancio lacrime e sangue.

Impegnarsi per un’energia pulita, sicura e a basso costo

Puglia ed eolico offshore strategici nella transizione energetica nazionale

Chissà: se Miguel de Cervantes fosse stato un nostro contemporaneo, la sua penna forse avrebbe fatto combattere Don Chisciotte contro le pale eoliche, anziché contro i mulini a vento: un duello vano quello del nobiluomo spagnolo, come sarà probabilmente vana la lotta di chi si oppone alla transizione ecologica in atto, mai così agognata come in questo momento. Il momento è propizio, dobbiamo affidarci alla scienza e alla politica delle competenze per accelerare questo percorso verso un futuro energetico sempre più verde. In questo abbiamo una fortuna: l’Italia ha migliaia di chilometri quadrati di superficie marina adatta all’eolico offshore e in grado di produrre tanta energia verde per soddisfare la crescente richiesta di energia pulita, riducendo così l’impiego di fonti fossili come il gas, che si tratti di quello russo o di altro paese.

Dal canto suo, la Puglia, grazie alla potenza dei venti che vi spirano e alla conformazione dei suoi fondali può e deve dare un grande contributo a questa rivoluzione epocale che il Paese sta attraversando. In tal senso, bene i parchi eolici offshore realizzati o in corso di autorizzazione nella regione che, peraltro, possono dare vita a filiere produttive durature con ricadute virtuose a livello economico e occupazionale nei territori. Si pensi all’assemblaggio delle turbine, alle movimentazioni portuali, a navi e rimorchiatori necessari per trasferire al largo le strutture da mettere in esercizio: la costruzione di opere così imponenti avrebbe pochi precedenti nella storia delle nostre aree industriali, mettendo in moto le zone retroportuali, da sempre volano per creare ricchezza.

Il tacco dello Stivale ha tutte le carte in regola per divenire capofila di questa rivoluzione verde, facendo da traino, perché no, a tutto il Paese. In primis l’intensità del vento che, anche nei mari pugliesi, soffia in modo più intenso e stabile rispetto alle aree interne, consentendo di produrre maggiore energia, circa il 30% di più, e con maggiore costanza. Poi la possibilità di sviluppare impianti galleggianti che non necessitano la perforazione dei fondali e che, secondo diversi studi, favoriscono nel tempo zone di ripopolamento ittico e di biodiversità sui fondali proprio grazie alla conformazione delle piattaforme e ai sistemi di ancoraggio sottomarino. Parchi eolici galleggianti con impatti visivi decisamente inferiori rispetto alle enormi distese di pale eoliche o pannelli fotovoltaici installati nelle campagne o in collina che, tuttavia, andranno posizionati a debita distanza dalla costa per renderli poco visibili dalle splendide coste pugliesi.

Altro punto a favore dei parchi eolici offshore rispetto a quelli a terra è la maggiore facilità con la quale essi potranno essere smontati al termine dei circa 30 anni del loro ciclo di vita. Già, perché la scienza sta facendo passi da gigante nel settore energetico e nel 2050 dovremmo poter contare su altre fonti pulite come il nucleare di quarta generazione, senza considerare che la Puglia, se solo lo volesse, potrebbe divenire regione guida nel prossimo decennio anche nella produzione di idrogeno verde ed energia da agrivoltaico.

In questo scenario, Forza Italia proseguirà nel suo lavoro, condiviso dal Governo Draghi, volto a semplificare gli iter per lo sviluppo degli impianti di produzione di energie rinnovabili e a superare quelle logiche fatte da veti, ricorsi, piccole o grandi resistenze territoriali che non sempre mirano alla tutela dell’ambiente, quanto alla difesa di interessi localistici ed elettorali.

D’altronde, le politiche energetiche portate avanti dal nostro partito a livello nazionale ed europeo insieme al PPE mirano a conseguire nel medio periodo quell’indipendenza energetica italiana ed europea per affrancarsi dal giogo dei paesi a rischio geopolitico: oggi abbiamo problemi di approvvigionamento con la Russia ma domani ne potremmo avere con i paesi del Maghreb o della penisola saudita.

Nel XVII secolo qualcuno, seppure in una finzione letteraria, combatteva lancia in resta contro i mulini a vento; oggi e domani con lo stesso vento possiamo combattere per avere un’energia sicura, pulita e a buon mercato.

 

On. Gianluca Rospi
Deputato di Forza Italia, dottore di ricerca in fisica tecnica ambientale

 

Roma, 27 giugno 2022
Articolo pubblicato sul Corriere del Mezzogiorno

L’insensata roulette russa per l’economia pugliese

Gianluca Rospi (FI): "L'insensata roulette russa per l’economia pugliese"

La guerra in Ucraina non si ferma, con i colloqui bilaterali che stanno portando risultati poco concreti. Non c’è più tempo da perdere, bisogna arrivare a un cessate il fuoco perché è una carneficina inaccettabile e che fa arrivare i propri echi nefasti fino a noi. Oltre alle tragiche perdite di vite umane, bisogna considerare il prezzo che tutta Europa, fino alla nostra Puglia, sta pagando in termini economici.

 

Russi San Nicola

Grazie anche alla figura di San Nicola, i rapporti diplomatici ed economici con Mosca sono diventati negli ultimi anni molto solidi; basti pensare che Bari nel 2007 ha ospitato il vertice italo-russo (con la visita di Putin alla città), il primo di una lunga serie di incontri istituzionali che hanno avvicinato la Puglia alla Russia, con benefici in termini di turismo, economia e sviluppo di partnership nel campo sanitario. E pensare che solo pochi mesi fa, nell’imponente piazza dell’Hermitage a San Pietroburgo, quarantamila russi rimasero a bocca aperta davanti all’esibizione dell’Orchestra del teatro Petruzzelli.

Tutto cancellato con un colpo di spugna dall’inaccettabile invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. I settori più colpiti dalla guerra (e dalle relative sanzioni) sono quelli dell’automotive e della meccatronica oltre che farmaceutica, moda e agroalimentare. Capitolo a parte meritano le ricadute negative nel settore turistico, di cui parleremo più avanti.

Rospi stampa 2022 1

Stando agli ultimi dati disponibili Istat e Ice (l’Agenzia per la promozione all’estero), nei primi nove mesi del 2021 le esportazioni della Puglia verso la Russia erano in forte ripresa. Parliamo di oltre 52,7 milioni di euro, in crescita del 64,1% rispetto a dodici mesi prima. Nello specifico (dati Istat 2019), solo nel settore farmaceutico le aziende pugliesi inviavano a Mosca beni per 22 milioni di euro, mentre altri 10,5 milioni arrivano dall’esportazione di prodotti tessili e abbigliamento. Un altro settore produttivo pugliese con interessi importanti era quello dei macchinari, con 9,5 milioni di export. L’agroalimentare si era attestato a poco più di 4 milioni, anche se prima del 2014 viaggiava sui 12 milioni di euro. In ripresa erano anche le importazioni, che da gennaio a settembre segnavano oltre 341,1 milioni, con un aumento del 133,4 % sul medesimo periodo del 2020. Già, perché la nostra regione importava quantità di merci davvero consistenti sia da Russia che da Ucraina, parliamo di materie prime come ferro, antracite, grano, legnami e seminativi.

Anche se molto più ridotti, intrattenevamo interscambi commerciali anche con l’Ucraina: da gennaio a settembre 2021 abbiamo esportato prodotti per 10,9 milioni di euro. Più consistenti anche in questo caso i numeri delle importazioni, che segnavano 152 milioni di euro. Quella che stiamo vivendo in queste settimane, non è la prima crisi economica sull’asse Puglia-Russia-Ucraina. Fino al 2013 i valori avevano trend ascendenti, ma nel 2014 ci fu un brusco calo, dovuto alla crisi in Crimea, prodromica del conflitto in corso. Da allora una difficile e lenta ripresa di importazioni ed esportazioni, fino alla nuova inchiodata nel 2020 dovuta alla pandemia.

guerra russia ucraina kiev

Tra le realtà imprenditoriali in maggiore difficoltà i grandi gruppi pastai pugliesi, che stanno andando in sofferenza per i carichi di grano tenero che non transitano più attraverso i porti russi e ucraini. Da non sottovalutare nemmeno l’impennata dei costi di concimi e mangimi, che si riverbera nella filiera della carne, considerando che una buona parte di questi prodotti è di provenienza ucraina.

A questo grigio scenario economico, dobbiamo aggiungere il maggior costo delle materie prime importate e dell’energia, che potrebbe portare l’inflazione al 6% nel 2022, determinando minori consumi per quattro miliardi, stando a una stima Confesercenti. Insomma, sembra configurarsi all’orizzonte il peggiore scenario economico possibile da evitare in ogni modo, la stagflazione, con prezzi in ascesa e consumi in calo. D’altronde, i prezzi dei carburanti parlano chiaro, schizzati verso l’alto del 30% per il petrolio e di oltre il 50% per il gas. Bene ha fatto il Governo a sforbiciare per un mese le accise su carburanti e gpl, ma è un provvedimento tampone, ora occorre agire a livello europeo. Come Forza Italia, infatti, abbiamo chiesto un’interrogazione alla Commissione europea per inserire un’aliquota massima di accisa da applicare a ogni Stato membro, che avrebbe una positiva ricaduta anche sulle imprese pugliesi.

guerra ucraina, putin, russia, sanzioni, rublo

Occorre poi pensare a un nuovo piano di aiuti, un Recovery Fund bis per garantire un adeguato sostegno alle imprese già in difficoltà per la crisi pandemica e per alimentare la ripresa economica avviata a fine 2021; e poi lavorare per una maggiore integrazione europea innescando la nascita di un esercito europeo e una politica estera comune.

Dicevamo del capitolo turismo, soprattutto religioso: San Nicola è il santo più venerato in Russia e ogni anno migliaia di turisti arrivavano a Bari, tanto che Aeroporti di Puglia aveva persino attivato due collegamenti diversi con quel Paese per incentivarne il flusso. In questo solco era, inoltre, ben alimentato il dialogo ecumenico tra la Chiesa Ortodossa e quella Cattolica. Gli scambi bilaterali in ambito religioso erano stati rafforzati nel 2003, quando proprio il presidente Putin aveva donato al capoluogo pugliese una statua di San Nicola, con una targa che ricordava i legami plurisecolari con Mosca. Legami, purtroppo, spezzati: Coldiretti Puglia ha analizzato i recenti flussi turistici dalla Russia, prevedendo oltre 100 mila presenze in meno nella nostra regione a causa della guerra. Una emorragia improvvisa che arresta l’interesse crescente nei confronti della Puglia da parte dei russi, testimoniato anche dalla crescita del 240% tra il 2017 e il 2018 delle ricerche del termine ‘Puglia’ in quella lingua, secondo le elaborazioni di Yandex, il principale motore di ricerca russo.

bilancio europeo

Dunque, accanto alla strage di innocenti e al dramma umanitario che osserva con apprensione e solidarietà ogni giorno, la Puglia dovrà presto affrontare gli effetti economici deleteri causati da questa insensata roulette russa.

Come risolvere tutto ciò? Oltre a lavorare per far cessare il fuoco, questa guerra ci ha fatto comprendere che è arrivato il momento degli Stati Uniti d’Europa; se tutti i suoi Paesi lavoreranno all’unisono con questo intento, in un mondo sempre più polarizzato tra USA, Russia e Cina, potremo lasciare alle future generazioni una Europa più influente a livello politico ed economico. Con sicuri benefici anche per Italia e Puglia.

Gianluca Rospi – Deputato di Forza Italia


Articolo pubblicato su affariitaliani.it
https://www.affaritaliani.it/puglia/gianluca-rospi-l-nsensata-roulette-russa-per-l-economia-pugliese-788583.html

 

No Vax, francamente basta!

Due anni di pandemia, due anni di sforzo collettivo da parte della società civile e della comunità scientifica ancora non sono bastati. Dopo i sacrifici, le morti, le perdite economiche, dopo il momento più duro della storia mondiale dal dopoguerra, francamente è arrivato il momento di dire basta alla polemica populista no vax.
Ho sempre rispettato tutte le posizioni e le diversità di vedute, mantenendo aperto il dialogo anche con chi ha idee diverse dalle mie e difendendo la necessità di convincere con la ragione e non con gli insulti le persone timorose di fare il vaccino. Ma adesso basta.
Siamo di fronte al rifiuto più totale della logica e della scienza, la stessa scienza che ci ha permesso di sconfiggere malattie che fino a cinquant’anni fa erano considerate incurabili. E non mi riferisco ovviamente alla scienza dei talk show: parlo di anni di studi, esperimenti e indagini condotte con l’unico obiettivo di migliorare la salute umana e terrestre. In una società avanzata come la nostra, non è più accettabile sentire persone prive di alcuna conoscenza scientifica e tecnica dibattere con ragioni puramente inventate. Ci ritroviamo così in una guerra di posizione tra fazioni avverse, quando l’unico nemico da sconfiggere è il virus.
I dati, che piaccia o meno, parlano chiaro: il vaccino protegge dalle forme più gravi di infezione ed è l’unico strumento in grado di assicurarci una convivenza con il virus. Ripeto, convivenza: l’uomo non ha il potere di eradicare le malattie, ma ha la possibilità di “addomesticarle” e renderle meno pericolose per la salute. I due terzi delle terapie intensive sono occupate da non vaccinati: ma davvero ancora volete combattere una guerra ideologica mettendo a rischio la vostra vita e quella degli altri?
Ma soprattutto, quali sono le soluzioni proposte dal mondo no vax? E non parlo di soluzioni proposte da qualche isolata figura, ma soluzioni che trovino concordi tutto il mondo scientifico che dedica la propria vita a questo. Ma è possibile che si esulti quando una persona vaccinata muore? O che non si attenda un minuto per strumentalizzare la morte di un uomo – penso al presidente Sassoli – cercando una presunta correlazione con il vaccino.
Onestamente basta. Chi ha agito per la sua comunità, vaccinandosi, non può continuare a essere ostaggio di scelte ideologiche scellerate. La libertà di cui parlano i no vax è solo la loro libertà, a scapito di quella di tutti gli altri.
In un mondo dove grazie ad Internet sembra facile sentirsi conoscitori di tutto, forse è arrivato il momento di fare un passo indietro, affidandoci alla conoscenza della comunità scientifica che ha permesso grandi scoperte che fino ad oggi ci hanno salvato la vita. Il resto è fuffa, basta.

matera rigenerazione urbana

Le mie proposte sulla rigenerazione urbana

Uno sguardo alla rigenerazione urbana

matera rigenerazione urbana

Ho presentato due anni fa un disegno di legge sulla rigenerazione urbana sostenibile, proprio perché in Italia manca una proposta nazionale che affronta questo tema. La materia della rigenerazione è a metà competenza tra Stato e Regioni e non esiste una legge quadro dettagliata che indica delle linee guida a livello territoriale o dà indicazioni alle regioni su come indirizzare, elaborare e gestire i piani di rigenerazione urbana. Oggi che abbiamo le risorse del Pnrr e che buona parte di esse sono indirizzate al miglioramento della qualità della vita delle comunità locali, il mio auspicio è quello che si possa mandare avanti questa legge perché la rigenerazione urbana può far ripartire l’economia. L’economia italiana, ma anche europea, può ripartire se si dà impulso al settore edile delle costruzioni, che movimenta anche una lunga filiera produttiva. Se guardiamo alla nostra storia e alle nostre tradizioni, notiamo che eravamo una civiltà che stava attenta all’ambiente, al riciclo e riuso. Ad esempio io sono nato nella città di Matera, la quale è diventata patrimonio dell’umanità grazie ai sassi, un esempio unico di architetture sostenibili, che negli anni 50 erano state addirittura indicate una vergogna nazionale, ma che, col passare degli anni, ci siamo resi conto, che quelle stesse architetture all’interno, avevano soluzioni tecniche innovative, come l’uso dei materiali del luogo o l’utilizzo di innovativi metodi per recuperare le acque piovane e come riutilizzarle. Inoltre le stesse costruzioni si affacciano su luoghi comuni perchè per i nostri nonni era importante la socializzazione e lo scambio delle idee all’interno di una comunità. Col passare degli anni questi usi e valori sono stati un po’ persi, ma forse adesso è arrivato il momento di tornare a riprenderli e progettare le nostre città in maniera sostenibile. Per farlo bisogna guardare anche al passato, alle nostre tradizioni e anche agli errori fatti, sono cosi si potrà fare una buona legge che guarda al futuro. Ad esempio: per tanto tempo si è parlato di bonus ristrutturazioni? ma solo quando si è passati a parlare di Superbonus si è arrivati a pensare ad impianti centralizzati. Bastava guardare agli edifici degli anni 60/70 per notare che lo avevano già, perché la politica e i professionisti dell’epoca avevano capito che erano più sostenibili rispetto ai singoli impianti di ogni appartamento. Il ruolo della politica, come stiamo vedendo adesso, è anche incentivare i cittadini a ritornare a pensare gli edifici come li pensano i costruttori degli anni 50/60 che avevano inventato gli impianti centralizzati all’interno degli edifici, naturalmente guardando alle tecnologie più efficienti del presente. Questi due esempi sono molto interessanti perché spesso si parla di rigenerazione urbana come qualcosa di nuovo, anche se in realtà fa parte della storia dell’uomo.

 

Spero venga calendarizzata quanto prima una proposta di legge di Rigenerazione Urbana al fine di elaborare una legge quadro nazionale per dare alle Regioni, indirizzi e tempi certi entro cui legiferare e fare piani sulla rigenerazione urbana. La cosa importante da cui non possiamo prescindere è che, rigenerazione urbana non significa finanziamenti a fondo perduto; questo perché una buona rigenerazione urbana si fa soltanto con una partnership pubblico/privato. Se non c’è il privato, che interviene e investe, difficilmente si riesce a fare una buona rigenerazione urbana, questo è anche uno dei principi inseriti nella mia proposta di legge alla Camera. Un’altra innovazione importante che dobbiamo superare come politica, questo più in riferimento agli amministratori locali e i sindaci, è il vincolo delle destinazioni urbanistiche: con il passare degli anni e il cambio di usi e abitudini delle persone, occorre riprogrammare anche le destinazioni urbanistiche degli immobili; questa non può e non deve essere un vincolo rigido come in passato. Basta guardare all’interno delle nostre città e vedremo ci sono zone con edifici fatiscenti e spesso abbandonati, questo perché in passato erano aree con destinazione d’uso artigianale o industriale. Parliamo, spesso, di aree vaste che non posso essere riqualificate a causa del vincolo di destinazione d’uso. Per questo nella proposta di legge è stata inserita, in alcune circostanze, anche una deroga alla destinazione d’uso degli immobili. Ciò può essere inteso, per esempio, per le tante caserme, o aree industriali e artigianali, presenti nelle nostre città, che possono essere spostate in altre aree e le stesse riqualificate e rimesse al servizio dei cittadini. Questo non significa fare speculazione edilizia, ma di riprogettare uno spazio urbano dove possono coesistere sia edifici residenziale che servizi e perché no anche aree artigianali e commerciali. Senza la partnership pubblico/privato, la deroga della destinazione d’uso di alcuni spazi e alcune primalità, difficilmente possiamo immaginare rigenerazioni urbane sostenibili e a servizio della comunità.


In Italia, poi, abbiamo tanti piccoli borghi, dove il progetto di nuove infrastrutture sono viste come delle problematiche e non come opportunità. Occorre ripensare e riprogettare le comunità urbane in modo intelligente e soprattutto con i cittadini che le vivono. Penso, ad esempio, a molti borghi della Basilicata che grazie al turismo sono tornati a vivere, così come i borghi della Puglia, o del centro Italia. La vocazione di certe città è cambiata, alcune che prima erano principalmente contadine ora sono prettamente turistiche: è un esempio di come gli stessi cittadini hanno ritrasformato i borghi dall’agricoltura al servizio del turismo. A volte però si tratta di un turismo di massa che va reso, a mio avviso, di qualità. Per esempio questo può avvenire portando manifestazioni artistiche e culturali, come è stato fatto in Basilicata, in particolare a Stigliano nel corso dello scorso anno, che ha ospitato il Festival Internazionale di Arte Pubblica, creando un flusso turistico, che ha permesso a queste persone di poter anche osservare la bellezza dei borghi delle colline materane oltre che gustare prodotti tipici locali. In ultimo occorre risolvere, e questo oggi è più facile con il PNRR, il problema della connettività, materiale e immateriale, di tutti i cittadini italiani, per far in modo che tutti i cittadini italiani siano collegati con le realtà metropolitane in maniera facile, sicura e veloce; tutto questo si può fare solo strutturando il territorio italiano con infrastrutture innovative come ferrovie, strade e fibra ottica.

 

Sviluppo, Rospi: ‘Giovani, precari a tempo indeterminato’

Gianluca Rospi (Coraggio Italia): “I giovani, precari a tempo indeterminato, decisivi per lo sviluppo del Paese’.
Una generazione definita debole e immatura e la sua colpa: quella di aver pagato a caro prezzo gli errori di una classe dirigente spesso plasmata non sul merito, ma sull’appartenenza e la fedeltà al politicante di turno. La mia riflessione per affariitaliani.it

La generazione nata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, definita “debole e immatura” anni fa inopportunamente da qualche distratto osservatore politico, ha l’unica colpa di aver pagato, a caro prezzo, gli errori compiuti da una classe dirigente spesso plasmata non sulle competenze e il merito, ma sull’appartenenza e la fedeltà al politicante di turno.

Dallo scoppio della pandemia, la narrazione mass-mediatica dei “giovani” li descrive alla stregua di untori, come i veri responsabili della diffusione del contagio figlia della “movida”. Osservando, però, le nostre città dal vivo e non solo attraverso le immagini televisive, si nota che proprio i più giovani sono quelli che rispettano le regole, attenti a difendere i risicati spazi di libertà concessi dalla morsa del virus.

E sono sempre loro, i giovani, quelli più colpiti da questa crisi pandemica, che li ha allontanati dalla scuola e dalle relazioni sociali, vitali per forgiare il loro carattere e la loro socialità che uno schermo, per quanto interattivo, non può garantire con le formazioni a distanza. Negli ultimi giorni sono di nuovo rifiorite le polemiche e le vecchie definizioni sui ragazzi di oggi “nulla facenti”.

Giovani

Con la crisi economica in atto, inoltre, se ne parla percriticarli quando non accettano lavori mortificanti o mal retribuiti. La verità è che i nostri giovani sono quelli che più duramente hanno pagato la crisi del 2010, e che pagheranno ancora di più gli effetti della pandemia sull’economia, tenuto conto dell’aumento stimato del debito pubblico a causa della pandemia: 500 miliardi, una cifra abnorme, quasi due volte e mezzo i soldi destinati al nostro Paese con il Piano di resilienza e ripresa.

Inoltre, l’Italia vanta il triste primato per i NEET – i giovani che non studiano, non lavorano e non sono impegnati in corsi di formazione – passati dal 22,1% del 2019 al23,3% nel 2020. È il dato peggiore in Europa, con oltre 10 punti oltre la media UE, assestata al 13,7% e con il dato relativo alle donne salito al 25,4%.

Davvero questa situazione può essere imputata solo a coloro che la subiscono? Purtroppo, una nazione che non guarda al domani non può meritarsi un oggi all’altezza. Emblematico è il caso della ricerca in Italia alla quale si destina un investimento pari all’1,39% del Pil contro il 2,2% e il 3,13% di Francia e Germania; l’Italia è ben distanziata dai due Paesi sia per quanto riguarda la ricerca nel settore industriale (0,86% contro1,44% e 2,16%) che in quello pubblico (0,5% contro 0,73% e 0,98%).

Cosa ci dicono questi numeri? Che il nostro Paese non crede e non investe nel proprio futuro. A questa situazione si aggiungono poi le ataviche pecche italiane, in primis il divario fra nord e sud Italia: la competenza delle Regioni in materia di politiche sociali ha permesso il crearsi di forti squilibri territoriali, che si ripercuotono drasticamente sull’offerta disponibile.

Basti pensare alla spesa pro capite per i servizi educativi comunali di prima infanzia: 88 euro in Calabria, tra i 291 e 351 nel Mezzogiorno, contro una spesa nel Nord Italia che supera quasi ovunque i 2.000 euro. Dagli asili all’istruzione universitaria, non molto sembra cambiare. Un titolo di studio non assicura più la possibilità di attivare l’ascensore sociale, ma spalanca di fatto le porte al precariato a tempo indeterminato.

Tirocini non retribuiti, nessuna possibilità di assunzione dopo l’esperienza formativa: una continua montagna russa per i nostri ragazzi, destinati a essere stagisti oltre i 30 se non, addirittura, i 40 anni. Non finisce qui: i giovani professionisti italiani sono tra i meno pagati di Europa, con un salario medio pari a 29.902 euro lordi l’anno. Su sedici Paesi analizzati dell’Europa occidentale, l’Italia è quattordicesima. E non è tutto: se consideriamo il valore del salario rapportato al potere di acquisto, la statistica peggiora portandoci dietro persino a Repubblica Ceca e Polonia.

Next Italia

Il Piano europeo per la ripresa post-pandemica si chiama, significativamente, Next Generation EU: è pensato infatti, per le nuove generazioni e per abbracciare il modello di sviluppo che i giovani hanno a cuore: digitale, inclusivo e rispettoso dell’ambiente. Nella mia esperienza di docente universitario ho avuto modo di conoscere decine e decine di ragazzi, dai quali spesso ho appreso più di quanto abbia insegnato.

Purtroppo, c’è un paradosso di fondo: le nuove generazioni hanno il loro modo di immaginare il mondo del futuro, ma non hanno la possibilità di disegnarlo nonostante apparterrà a loro. È arrivato il momento di smettere di scaricare le nostre responsabilità sui giovani, e iniziare a mettere in campo politiche che restituiscano quanto, ingiustamente, è stato loro negato.

Dobbiamo avere come esempio i nostri nonni, quella generazione che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale, quella generazione che ha preso un Paese agricolo elevandolo a quinta potenza industriale mondiale, avendo come unico obiettivo quello di lasciare un mondo migliore ai loro figli e nipoti. E nell’attuale fase evolutiva verso un “mondo migliore”, stiamo assistendo al più grande cambiamento epocale per il mondo delle risorse umane nella storia della Repubblica, in ambito sia pubblico sia privato.

Le nuove tecnologie sono centrali in questa evoluzione, poiché fanno emergere rinnovati bisogni di specializzazione e competenze, creando nuove opportunità di crescita per giovani profili freschi di formazione universitaria. È il momento di fare leva sulla programmazione dei fondi Next Generation EU per investire su quei giovani che, troppo spesso, sono rimasti intrappolati in sterili spot propagandistici, raramente diventati realtà.

Ecco perché, pochi giorni fa, ho presentato un emendamento mirato a favorire l’assunzione a tempo indeterminato dei Dottori di ricerca presso le aziende private. L’ho fatto perché credo nel valore dei nostri giovani e in quello della nostra offertauniversitaria, nonostante i continui tagli e le incredibili difficoltà. Abbiamo il dovere di invertire la rotta, oltre che la necessità di valorizzare i nostri talenti nelle nostre aziende, evitando la fuga di cervelli che, secondo Svimez, riguarda ogni anno cinquantamila ragazzi meridionali.

“Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, ci pare, parlano ai giovani”, parole di Papa Giovanni XXIII che devono servirci da stella polare per proteggere e supportare la generazione a cui stiamo chiedendo di contribuire al futuro del nostro Paese.

* Deputato e vicepresidente del gruppo di Coraggio Italia alla Camera

Reti TEN-T: l’ambizioso progetto per le future generazioni

10 maggio 2021 – Trans European Network-Transport meglio noto con l’acronimo TEN-T è l’ambizioso progetto europeo avviato nel 2013 nell’ottica del miglioramento della circolazione di merci e persone, che dovrà essere la spina dorsale del futuro economico, politico e culturale della stessa Europa.

Come Nazione avremo da gestire oltre 200 miliardi di euro per riorganizzare il presente e il futuro del Paese perché le scelte che faremo oggi potranno portare benefici o creare problemi alle nuove generazioni. Questo dipenderà solo da noi.

La creazione di una Piattaforma logistica nel Sud Italia come porta d’accesso dell’Europa, oggi, è ancora più importante, soprattutto perché con il raddoppio del canale di Suez e la costante crescita di economie emergenti come l’India, l’Europa dovrà dotarsi di uno scalo logistico che insieme al Pireo possa essere attrattore di tutte le merci che oggi attraversano il Mediterraneo.

Per fare questo basterebbe sfruttare la naturale posizione strategica che l’Italia e soprattutto il sud Italia ha all’interno del bacino del Mediterraneo.

Non può esserci però piattaforma logistica senza investire nelle zone retroportuali dei due grandi porti del Mezzogiorno quali Gioia Tauro e Taranto, che hanno ancora potenzialità di sviluppo interessanti per quanto riguarda la retroportualità. Questi se messi a sistema con altri porti italiani, in primis Genova e Trieste, possono rappresentare una possibilità di rilancio della buona economia fatta di lavoro e crescita umana.

L’apertura di un’altra porta nel Mediterraneo, mettendo a sistema questi due porti del sud Italia, è funzionale a intercettare milioni di tonnellate di merci che oggi, superando Suez e non trovando spazio nel già sovraffollato porto del Pireo, attraversano il mediterraneo per fare rotta verso altri porti, come il Tangeri Med in continua espansione. Lo sviluppo dei porti di Goia Tauro e Taranto sarebbe funzionale, soprattutto, ad accorciare i tempi, di almeno una settimana, delle merci in ingresso e uscita dall’Europa.

La creazione di zone retroportuali tecnologicamente avanzate dietro i porti di Taranto e Gioia Tauro potrebbero essere i principali punti di attrazione per le merci che arrivano in Europa dalla Cina e dall’India, Paesi sempre più attivi nel commercio internazionale.

Ma per riuscire a rendere tutto questo possibile è necessario completare le reti infrastrutturali strategiche europee: le TEN-T. È necessario un potenziamento delle reti di trasporto trans-europee come l’accelerazione sul fronte dell’alta velocità e dell’alta capacità nel sud Italia. Mi riferisco, in primis, al completamento della dorsale adriatica nel tratto Ancona-Foggia (in quanto il tratto Bari–Foggia e già ricompreso nella rete AV/AC Bari-Napoli), opera questa non compresa nell’attuale programmazione europea ma che dovrebbe essere un pilastro strategico che l’Italia deve sostenere nella revisione delle TEN-T prevista nel corso del 2021.

Un asse, questo strategico, anche per il trasporto merci, perché caratterizzato da basse pendenze e meno gallerie rispetto al lato tirrenico. Vanno inoltre accelerate le dorsali Salerno-Palermo e Napoli-Bari-Taranto-Lecce, anch’esse tratte fondamentali per dare risposte al crescente traffico passeggeri e merci. L’itinerario marittimo-ferroviario, lungo il versante adriatico-ionico, raccorderebbe i porti del sud Italia concretizzando anche un rapido collegamento verso nord, in una catena intermodale integrata ed efficiente, porta d’ingresso ai Paesi balcanici e dell’est Europa.

Purtroppo, l’assetto attuale della rete TEN-T nell’Italia peninsulare è servito unicamente dal corridoio Scandinavia-Mediterraneo, lasciando scoperte tre tratte del sistema infrastrutturale multimodale adriatico-ionico (Ancona-Foggia, Bari-Lecce, Paola-Taranto) dall’alta valenza strategica e sistemica. Un corridoio adriatico-ionico maggiormente infrastrutturato consentirebbe di redistribuire il traffico sulla direttrice nord-sud, evitando fenomeni di saturazione in corrispondenza degli snodi principali.

Fonte: TrasportoNotizie.it

E’ arrivato il momento dell’Alta Velocità anche per il Salento

Dopo decenni di “Altra” Velocità, è arrivato il momento dell’Alta Velocità anche per il Salento
06 maggio 2021 – Il Salento e l’Alta Velocità, un matrimonio che stando al PNRR proprio non s’ha da fare. Nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, infatti, si prefigura soltanto “l’estensione dell’Alta Velocità al Sud, lungo la direttrice Napoli-Bari che viene conclusa, e la massima velocizzazione della Salerno-Reggio Calabria, ottimizzando gli interventi. Infine, si velocizzerà anche il collegamento diagonale da Salerno a Taranto e la linea Palermo-Catania-Messina”. Entro il 2023, ad ogni modo, scatterà il primo collegamento diretto tra Napoli e Bari “con successiva estensione dell’itinerario fino a Lecce e Taranto”; briciole, che non saziano la fame di progresso non solo del Salento, ma dell’intero Mezzogiorno.

Il solco per il rilancio del Sud non può che essere “ferrato” e adriatico. Stando a una stima calcolata da RFI in uno studio del 2007, il costo medio italiano (riferito a opere completate) di un chilometro di Alta Velocità è di 32 milioni di euro, molto più elevato sia del chilometro francese (10mln di euro) che di quello spagnolo (9mln di euro). Perciò, per collegare Ancona a Foggia e Bari a Lecce sarebbero necessari, per gli oltre 470 chilometri da coprire, circa 15 miliardi di euro secondo la media italiana. Una cifra che può apparire mastodontica, ma assolutamente congrua nell’ottica degli oltre 200 miliardi messi a disposizione del PNRR a cui si aggiungeranno sicuramente circa 20 miliardi della prossima programmazione di fondi strutturali europei; un’Alta Velocità sino a Lecce contribuirebbe a rafforzare la credibilità dell’Italia di domani, nella quale sono fondamentali infrastrutture all’avanguardia, attorno alle quali far crescere servizi e territori. D’altronde, tra Bari e Foggia l’AV è contemplata nell’upgrade della linea con Napoli e, quindi, un primo importante tassello è stato già posato.

Assieme all’area metropolitana salentina, crescerebbe tutta la dorsale est italiana. Infatti, con l’AV fino alla capitale del Barocco, si potrebbero mettere a sistema i porti di Brindisi, Bari, Ancona, Trieste e anche Taranto, quest’ultimo strategicamente inestimabile per il traffico merci dal Mediterraneo verso Cina e India. Occorre adattarsi ai nuovi standard richiesti dallo shipping internazionale e della logistica, che vanno oltre il mero trasporto marittimo, in quanto coinvolgono in modo rilevante anche tutta l’area retroportuale. Per farlo, è necessario spingere sul fronte dei “Nodi Intermodali” delle “Reti Ten-T” di trasporto transeuropeo: è, dunque, imperdibile l’opportunità di collegare approdi marittimi, ferroviari e aerei, in un’interconnessione dal DNA green, integrato ed europeo.

Pensando al completamento della Napoli-Bari e dell’Adriatica sarà più semplice fare la spola tra il versante tirrenico e quello adriatico. Se ragioniamo sul triangolo immaginario tra Lecce, Brindisi e il capoluogo ionico, concentrato in un nuovo modello trasportistico e proiettato verso Campania e Lazio, parliamo di una macroregione da circa 13 milioni di abitanti, equivalente a oltre il 20% di tutta la popolazione del nostro Paese. Così, daremmo anche la possibilità al territorio interno di ripopolarsi, quasi fosse una grande metropolitana della Magna Grecia.

A proposito della storia, sarebbero enormi le ricadute positive sul turismo grazie all’arrivo dell’AV. Il Salento paga l’atavica mancanza della rete autostradale, che in quella direttrice si arresta al casello di Massafra, in provincia di Taranto, a oltre cento chilometri da Lecce. È politicamente miope, oltre che ingiusto per i cittadini interessati, non garantire nel Mezzogiorno la stessa fruizione del treno permessa dal Conero in su.

Il mondo corre, e non possiamo più permetterci di essere fuori tempo. “Lento” va bene solo nella parola Salento: dopo decenni di “Altra” Velocità, è arrivato il momento dell’Alta Velocità.